22 gennaio 2012

SHAME: un af-fresco del nostro tempo

La storia di Shame è quella di un componimento alto, ma non altro.



Brandon, newyorkese in carriera, con le classiche caratteristiche dell'uomo di successo; soffre di dipendenza sessuale, che lo spinge a ricercare soddisfacimento in una routine-roulette di porno-web, prostituzione e ogni genere di fantasia facilmente appagabile. L'intrusione di sua sorella Sissy nella sua nicchia, provocherà un vero e proprio urto all'equilibrio di Brandon. Il muro dissimulativo che separava vita esterna e interna sarà abbattuto, e si genererà quella shame, che lo violenterà in un climax di rifiuto verso se stesso e soddisfacimento sessuale nevrotico. 

Il sesso raccontato da McQueen
è un sesso che violenta il protagonista, non ha nulla di piacevole, se non come valvola di sfogo, come fuoriuscita irrequieta dalla routine quotidiana; la pratica sessuale in Shame diventa hiatus, interruzione, del ritmo biologico-lavorativo, e per questo motivo meccanica, aggressiva.

Steve McQueen dipinge con distacco, e partecipazione allo stesso tempo, la vicenda di Brandon.
Il risultato è toccante, nonostante le immagini e le riprese restino volutamente, penso, fredde e artificiali; quasi come fossimo posti dietro un vetro a osservare la vita del protagonista, quasi come ci fosse proibito poter com-patire il suo dramma, perché lui, solo, si trova ingabbiato da "quel vetro". Forse, perché "quel vetro" è lo stesso che ci rende incapaci di comunicare con l'altro, e ci rende prigionieri a noi, come a Brandon, come a Sissy.

Film che è valso a Michael Fassbender il premio come miglior attore al festival di Venezia, più che meritato, devo ammettere. Fassbender si rivela maestosamente bravo, tanto da far commuovere nella scena della canzone New York New York, grazie anche all'aiuto di Carey Mulligan.

Ottima colonna sonora con: 
Rapture-Blondie
I want your love-Chic
New York New York-Carey Mulligan




Film & Art:


Grief- Erwin Olaf


Penso che la serie Grief di Erwin Olaf possa ben rappresentare come possa esserci dolore anche nella perfezione, nel tutto-positivo. Il personaggio della foto è come ingabbiato nella sua stessa casa, dalla sua condizione, dal vetro della finestra che lo tiene come in prigione. Una fotografia da colori sobri, minimali, che rimandano ad un'aridità interiore che viene manifestata da questi luoghi scarni, vetrati, in cui tutto è allo scoperto, tutto è ben evidente e ben sistemato, tranne il disagio interiore che affligge tutti i personaggi rappresentati. La geometria insistente delle foto trasforma quelle stanze in celle, celle di lusso, celle dell'io; una cella da cui è forse impossibile uscire dal momento che è il tutto, è il più che ci circonda e non è un luogo ben definito.


















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